Doveva essere il festival dell’addio per Amadeus, la sua ultima direzione per lo show più atteso dell’anno, dove si misura la forza dell’azienda televisiva di Stato con i numeri, quelli degli sponsor e quelli degli ascolti. E Amadeus i numeri li ha fatti. Ma, a parte i numeri, cos’altro si ricoderà di questa edizione?
Si ricorderà che è mancata la melodia, uno dei punti forti, nel DNA della gara canora. Storicamente da Sanremo sono uscite alcune delle canzoni più belle del panorama musicale italiano, quelle che poi restano senza l’ansia da prestazione del tormentone del momento e del ritornello che acchiappa.
Sono mancati, tanto per fare qualche esempio, brani come Un’avventura (1969), Perdere l’amore (1988), Almeno tu nell’universo (1989), Destinazione Paradiso (1995) e così via. Quelle che nel gergo si definiscono “canzoni da Sanremo”, ben scritte, con giri armonici ben congegnati, nel solco della tradizione più classica della canzone italiana.
In questa edizione, assente la melodia, anche di arte (si parla di canzoni non di interpreti) se n’è vista poca fatta eccezione per le canzoni di Mannoia, de Il Volo e della Bertè.
Il vero protagonista è stato il ritmo, ma nella sua declinazione più banale. Perché anche Gianna (1978), Salirò (2002), Le mille bolle blu (1961), Musica leggerissima (2021), Apri tutte le porte (2022) sono pezzi basati sul ritmo, ma c’è tanto altro.
Se qualche testo interessante c’è stato, può essere considerato nella sua accezione scolastica.
Siamo realisti: hanno pesato, in questa come nelle precedenti edizioni targate Amadeus, le strutture costruite intorno ai singoli cantanti. Non è un caso che la manager di Angelina Mango sia la stessa del Maneskin e di Marco Mengoni: Marta Donà.
A Sanremo più del talento, più del nome e più della qualità del brano contano il manager e l’etichetta discografica.
Le polemiche sono giustificate ed è lecito pensare che continueranno nei prossimi giorni. L’atteggiamento tenuto dagli accreditati in sala stampa è stato riprovevole. Più di quello del pubblico in sala. Una volta per avere il pass bisognava dimostrare di essere (realmente) un giornalista di settore, per conto di una testata registrata, con qualche competenza e un minimo di professionalità. Pare si sia persa questa regola, base di ogni meccanismo di accreditamento.
Intanto non sarà facile spiegare al 60% che ha votato da casa per Geolier, come mai sia arrivato secondo. E quale strumento potrà verificare la veridicità di un televoto andato in tilt?